Tuesday, August 29, 2017

Mia cara F.


Mia cara F.,

Sono C., probabilmente non ti ricordi di me, o avrai solo ricordi offuscati del mio essere. Una vita è lunga da vivere, e noi non siamo stati che due sconosciuti che si sono incrociati durante il cammino. 

Ci siamo incontrati in una bettola seminterrata a cavallo tra il bosco e la radura. Era una bella serata di agosto molto calda. Il locale, per quanto squallido e male illuminato, era in pieno fermento estivo e i clienti si godevano la brezza serale sorseggiando nettari variopinti. Un buon blues ritmato si confondeva al brusio dei clienti inebriati. Il gruppo che si esibiva dopo di me non era male. Quella sera non era di certo la mia sera: sul palco feci una magra figura e decisi di terminare al bancone con la mia malinconia profonda come compagna di bevute. Forse il mio sguardo perso, forse la tua totale inadeguatezza per il luogo ma i nostri occhi si sono incrociati, è per quello che ho scelto di parlarti.
Di quel discorso non hai probabilmente memorizzato nulla, presa come eri dai tuoi impegni, dalle tue giornate piene e dalla tua incapacità di vivere il momento presente, con quegli occhi in costante movimento incapaci di fissarsi su di un oggetto alla volta. Ma quella serata, quelle parole hanno cambiato la mia vita.
Continuando a vivere ho capito molto di quelli come te. Voi non siete fatti per vivere con noi. Presi come siete dal flusso continuo dei vostri compiti, non riuscite a distogliervi dagli obiettivi che vi ponete. Tutta la vostra vita è mirare a qualcosa, se poi la ottenete, non siete soddisfatti, continuate a mirare oltre. Pensate forse che qualcuno vi noterà? Non vi rendete per caso conto che in questo brulicare di vite, in questo fiume di esseri nessuno è indispensabile? Essere il migliore adesso in questo posto non significa nulla. Siamo granelli di sabbia in una spiaggia, ma siamo allo stesso tempo separati da un universo illimitato e buio. Nessuno cerca mai di rendere quello che ti meriti dopo una vita di costante dedizione al tuo lavoro, sono tutti troppo concentrati su se stessi per notare il talento degli altri.
Sono state queste parole a farci litigare. Gente come te ne ho vista molta e forse quello era il momento meno adatto a uno scambio pacifico di idee.
Ho sempre fatto quello che volevo della mia vita, pensando solo a riempire il mio stomaco e a divertirmi. Sono stato fortunato, lo ammetto. Ho sempre avuto un talento innato per la musica. Però non ho mai voluto superare i miei limiti. Chiaro, molti credevano che avrei aperto una breccia, che sarei diventato famoso. 
A me non andava di sforzarmi, la mia musica mi dava sempre quel minimo che bastava per permettermi quelli che per me erano lussi: da mangiare, per il corpo; da bere, per i nervi; da amare, per l’anima. E questo mi è sempre bastato, non ho mai chiesto altro. Ed ho vissuto consumando, senza mai pensare al domani. Racimolando qua e là, dormendo dove capitava, perdendomi negli occhi di quelle che si sono lasciate incantare dalle mie note.
Io sono conscio delle mie scelte, so a cosa mi ha portato questa vita, ma l’ho vissuta assaporando con gioia ogni istante. I tuoi occhi agitati, li ricordo come fossero qui davanti adesso, invece non guardavano al presente, erano proiettati verso un tempo che forse non sarebbe mai arrivato. 
Il tuo capo ti aveva trattata male quella sera, per questo eri venuta a bere. Se ne approfittava nonostante sapesse quanto fossi più valida dei colleghi in laboratorio, e ti mandava sempre fuori a recuperare il materiale nonostante ci fossero altri più adatti. A tuo dire valevi di più ma eri trattata come chiunque. Era questo che ti disturbava, è questo che vi ferisce. L’essere sostituibili. Proprio non riuscivi a mandarlo giù ed è per quello che ci stavi male. E fu per quello che abbiamo litigato. Tu urlavi alle tue colleghe inette, ai tuoi superiori, non a me. 
Io, al contrario di te, l’ho sempre saputo. Nonostante le mie doti canore, un dono divino, non ho nessun merito per questo, sono sempre stato conscio di una cosa: ci sarà sempre qualcuno dopo di me, che butterà anima e corpo in quello che faccio e riuscirà a farlo meglio di chiunque altro. 
Che si goda la fama allora, mentre io mi godo la vita che non avrà il tempo di vivere. Ho scelto di utilizzare le mie risorse al minimo, solo per ottenere una momentanea e intensa gloria.
Quella notte era particolare. Urlavamo troppo e l’oste ci cacciò. Barcollavo un po’ e allora mi hai aiutato a camminare, è stato in quel momento che ci siamo sfiorati. Un brivido mi ha percorso l'addome, e il resto è stato automatico. 
Il sesso di quella notte è stato qualcosa di diverso da quello che ero abituato a fare. Ricordo ancora ogni momento, riesco a rivivere ogni istante con la mia mente. Ho cantato per te canzoni antiche, provenienti da paesi lontani forse mai esistiti. E poi di nuovo la passione ha incendiato i nostri corpi, per tutta la notte. Non mi è mai più successa una cosa del genere, forse due anime così diverse si completano, forse serve il buio più nero per apprezzare veramente la luminosità dei raggi solari.
La mattina dopo sei sparita, senza dare troppe spiegazioni. Il lavoro, le responsabilità, la tua vita impegnata. Io invece me ne restai sdraiato forse altre quattro ore prima di andare a suonare svogliato in un’altra bettola più lurida.
Non ho mai più saputo nulla di te, se sei mai riuscita a far prevalere le tue doti, se ti sei poi trasferita altrove perché, a tuo dire, eri sprecata in questo buco dimenticato da Dio.
Per me, invece, le cose hanno preso una brutta piega. Non ho un tetto, l’inverno è ormai alle porte, le mie canzoni non sono più al passo con questi tempi. Sono anche abbastanza malconcio, non mangio da parecchio. Avventure come quella non ne ho vissute più da molto, molto tempo ormai. Non biasimo nessuno, sia chiaro, chi si avvicinerebbe a qualcuno ridotto come me? Il poco che riesco a racimolare lo spendo in nettari inebrianti e, detto fra noi, non credo di resistere in queste condizioni ancora per molto.
Ma la sai una cosa? Ho goduto questa vita, l’ho vissuta intensamente. Ho bruciato la candela da entrambe le estremità e non mi pento di nulla, neanche delle sofferenze. Ogni istante io lo posso rivivere, ogni incontro fatto nella mia vita mi ha lasciato un insegnamento. Il passato lo ripercorro e ne sorrido.
Se la mia vita dovesse finire domani, posso dire di essere fiero di averla vissuta così.
Tutto quello che hai ottenuto, a cosa ti sarà servito quando sarai sdraiata come lo sono io? La formica che ti sostituirà sarà abile forse più di te. All’interno della colonia resterai solo un ricordo, sempre più sbiadito, di una come tante forse brava più di tante, lontana un universo dagli altri in una distesa di granelli di sabbia tutti uguali. In un formicaio identico a milioni di altri formicai.
Invece quella notte ho cantato ai tuoi occhi. Li ricordo ancora oggi e saprei distinguerli in quell’oceano infinito di granelli di sabbia perché, anche se per un breve istante, ho visto una luce diversa illuminarli da dentro. Un breve lampo, ma so per certo che quella sera hai capito il mio mondo e ne sei rimasta incantata.
Finché avrò forza farò vibrare l'addome: canto al sole che ha deciso di nascondersi, canto al caldo che non c’è più e canto a tutti i compagni di questa vita, perché l'hanno resa degna di essere vissuta.

Wednesday, September 28, 2016

La ballata della corda annodata.


[O la canzone dell'allegro suicida.]


Ti senti asfissiato, in un corridoio?
Su prendi la treccia, fai un nodo scorsoio.
La vita è insapore, non sai più come uscire?
Fai scorrer la canapa, ingrassa le spire.
Ci son solo ragni nel salvadanaio?
Annodala alta, appesa al solaio.
Tua moglie ti lascia per un giovane bello?
Indossala stretta, vai sullo sgabello.
Nei giorni sei grigio, non vedi più il buffo?
Che diamine aspetti, fai ora quel tuffo.
E ora che ondeggi, col collo spezzato,
riposati in pace, che il peggio è passato.

Tuesday, January 26, 2016

2066



Prima pagina del Giornale Unico Italiano, pubblicato sul Network.

"Un rom è stato fermato a schiaffi da un operaio di Milano mentre tentava di derubare un'anziana di Busto Arsizio.
Guardate questo gatto che fa quando i padroni non sono in casa.
Questo fine settimana Plutone sarà più grande di 3,14 volte.
Dopo aver visto questo video non mangerete più carne di soia.
Scoperto il modo di produrre energia pulita nei diari segreti della donna delle pulizie di Tesla.
Clamoroso: questo politico del movimento democratico nord ha restituito un miliardo di lire ad un vecchio pensionato senza lavoro.
Un turista americano è morto cospargendosi i genitali formiche ed andando nella gabbia dei tapiri nello zoo di Berlino.
CLAMOROSO! Un serial killer si intrufola negli appartamenti per uccidere gli occupanti e postare i selfie su Instagram".

La metro è affollata, alcuni ridono per il filmato del gatto, altri si indignano per la storia di Tesla, due ragazzi sghignazzano ad alta voce: "che stupidi questi Americani, fanno qualsiasi cosa per scommessa!".
Io mi guardo attorno come un visitatore che osserva i pesci dentro un acquario.
Mi sento dietro un vetro, mi sembra tutto così irreale.
Non credo nulla di quello che leggo ormai. Sono solo trovate pubblicitarie o virali, servono per far soldi con i click o per rubare like (che da vent'anni hanno un valore economico come qualsiasi altra valuta). Ma non è questo a farmi essere distaccato, è il fatto che alla gente non interessi assolutamente. Per quelli che mi circondano è irrilevante che la notizia sia falsa, per loro l'importante è provare un briciolo di empatia, di indignazione, di sentimenti.
Scendo alla fermata Pigneto. Sono anni che dicono di voler congiungere la metro C alla A, ma pare abbiano trovato ville e terme, mosaici ed affreschi. Non è mai stato possibile vederne uno per il pericolo di crolli, né è stato possibile prolungare la metro per il danno artistico. Nessuno si è mai preso la briga di indagare, solo qualche sito che denuncia il degrado capitolino ha pubblicato delle foto limitandosi a commentare con battutine e sfottò nei confronti dell'amministrazione.
All'uscita della stazione un ragazzo si avvicina e mi chiede un like sulla sua pagina. "Te lo do solo se non mi riempi di inviti alle serate", dico.
Alla sua conferma sfioro il mio palmo sul suo, sul visore degli occhiali mi appare la sua pagina di eventi. Batto la palpebra destra.
All'istante mi arrivano 3 mail di inviti ad una serata Erasmus open bar a soli 80 euro, ad una cena vegana con birre artigianali senza lievito vivo, ad una serata breakgoa fino alle 6 di mattina con after annesso. Guardo il ragazzo con faccia rabbiosa, lui pare non rendersi conto della mia espressione, è vitreo, non percepisce più le emozioni umane. Come molti ormai.
Non è sempre stato così. Mio nonno mi parlava spesso di come tutto fosse iniziato. Di come piano piano la gente abbia abbandonato la vita reale per rifugiarsi in una vita sintetica: più le emozioni correvano tra le pagine dei social network, meno tempo c'era per utilizzarle nel mondo fisico. E così alla fine ci siamo ridotti a cercarle per brevissimi attimi nelle notizie false passate dal Network, nei like presi per le foto profilo, nelle frasi filosofeggianti e nelle citazioni di canzoni famose da condividere con i contatti.
Fino a diventare questo. Non è un inferno sia chiaro. La disoccupazione è sostanzialmente invariata sin dalla crisi di inizio secolo. La gente riesce a sopravvivere, senza lussi ma neanche stenti.
Mentre cammino un bambino vestito da qualche personaggio di Star Trek Wars mi schizza con della schiuma da barba sintetica. Lo guardo sorridente e lui mi dice in un pessimo inglese "LAIK A BOSS!" e scappa ridendo. Non so neanche più perché si utilizzino certe parole inglesi, sono entrate di prepotenza nel nostro linguaggio, a volte decontestualizzate. Ho provato a lamentarmene sulla pagina ufficiale del dizionario Spinoza, ma sono stato sfottuto e preso per bacchettone reazionario dalla community (che rilascia ogni mese l'aggiornamento al nuovo dizionario della lingua italiana). Dopo essermi beccato anche un centinaio di "fascista" e parecchi auguri di morte, sono stato bannato dalla pagina e multato con 100 giorni di silenziamento sul Network, o 10000 like da scalare dalla mia pagina. Ho preferito il silenzio, non per mancanza di like, per riflettere.
Inserisco la chiave nella serratura del portone, e prima di scattare il videocitofono proietta il trailer del nuovo film Disney/Marvel "Spiderman e i sette nani contro il male". Mentre scorrono le immagini sorrido, penso che i possibili incroci di personaggi e storie sono quasi finiti, prima o poi gli sceneggiatori saranno costretti a cercare di inventarsi qualcosa di nuovo. A metà circa appare il messaggio "suonare il citofono 2 volte per uscire dal trailer", lo faccio, il portone scatta ed entro.
La mia casa è piccola, abito solo e non ho gatti, cosa che mi fa passare per insensibile ed inumano agli occhi di molti degli altri inquilini. Dall'ispezione dell'esattore della tassa sulla lettiera (vengono a controllare che veramente tu non sia in possesso di un felino, pare ci siano molti evasori), la vicina dell'appartamento di destra ha smesso di salutarmi. Una mattina prima di uscire l'ho sentita parlare con qualcuno al telefono: "...come fai a non avere un gatto? fanno parte della nostra cultura, questo qui è strano, secondo me è un violentatore, l'ho letto su buzzfeed che il 75% dei violentatori non ha un gatto, per fortuna che la mia webcam è online 24 ore al giorno, almeno sono controllata da tutti e non può succedermi nulla di brutto. Il mondo è pieno di pervertiti guarda..."

Dopo la mia cena, senza glutine, senza olio di palma e senza cibo OGM (il governo ci da mille euro di buoni per l'acquisto di cibo biologico nazionale), spengo il visore e disconnetto il sensore cutaneo. Metto l'intero appartamento offline (non è vietato, ma sconsigliato: il mio citofono diventa rosso quando è offline, quindi un qualsiasi malintenzionato potrebbe sfruttare l'informazione a suo vantaggio). Prendo il sonnifero in bagno e preparo un bicchiere d'acqua, li poggio sul comodino e mi sdraio supino, fisso il soffitto con gli occhi aperti, e rimango in silenzio nel buio della mia stanza.

Chiudo gli occhi e mi metto a fantasticare su di un mio alter ego, un astronauta che viaggia senza meta in un'astronave solitaria. Attraversa galassie, pianeti, costellazioni.
E durante questi viaggi pensa al senso della sua vita.
Che senso ha una vita vissuta in solitudine, guardando da dietro un oblò l'universo, senza interagire con esso, senza scambiare informazioni ma rimanendo ancorati alla propria plancia di comando, assicurandosi di non perdere mai la rotta?
Non è forse meglio intervenire sui comandi, uscire dagli schemi predefiniti, cercare un attrito, una collisione?
Di punto in bianco una figura maschile mi si para davanti. Non reagisco male, anzi mi siedo e gli chiedo chi sia.
È un bel ragazzo alto, castano, sulla trentina.
Mi dice di essere un ex funzionario del governo, colui che mi salverà da tutto questo. Che mi ha capito monitorando la mia poca attività online, dal mio disconnettere l'appartamento ogni sera. Che quelli come me sono più intelligenti, che dobbiamo salvare il pianeta.
Mi sorride, ci sa fare, è empatico. Vestito abbastanza casual, mi racconta che anche lui era come me. Che anche lui sapeva che qualcosa andava male in questo mondo.
Lavorava come sistemista di rete nel Network nazionale, ed aveva costantemente sott'occhio tutti i grafici di attività online della popolazione. Si occupava di pubblicare le statistiche sui profili globali, proprio così notò che alcuni profili si discostavano totalmente da quelli standard. Erano unici, rari. Tutti cercavano privacy, erano cinici, non passavano tempo sul Giornale Unico Italiano, non partecipavano ai commenti delle principali trasmissioni in streaming, non pubblicavano foto delle vacanze sul Network.
La Nazione li vedeva come potenziali terroristi, come sovversivi, come anarchici. Ma lui sapeva che non era così, lo sapeva perché in fondo era uno di noi. Le sue ultime parole sono frettolose. Dice di dover tornare presto nel suo nascondiglio, che sta organizzando una specie rivolta, e che dovrò andarmene da questa casa domattina appena sveglio, perché avrebbero mandato qualcuno in incognito a cercarmi. Mi consiglia di diffidare di tutti: dei funzionari di stato, dei postini, delle vicine.
Io ho molte domande ma capisco subito che lui non ha risposte. Mi sorride e mi consiglia di dormire e di raggiungerlo nel nascondiglio subito dopo essere andato a lavoro, per non destare sospetti. Prima di uscire dalla stanza mi porge gentilmente il sonnifero e l'acqua. Lo ringrazio.
La pasticca ha uno strano sapore di mandorla amara stavolta.
L'ultima cosa che ricordo è l'intruso che allunga il braccio e si scatta una foto vicino al mio corpo immobile, e poi tutto sfuma a nero.
E mi trovo di nuovo nella plancia di comando.
Come una miniera di diamanti, la via lattea mi illumina il cammino.
Ho sempre pensato che lo spazio dovrebbe essere molto più luminoso. Anche se le stelle sono finite, la luce dovrebbe travasare per ogni dove, dovrebbe riempire il cielo di lampi e di energia. Invece l'oscurità vince sempre su tutto.
Soprattutto su questo mondo di deboli luci al neon, di emozioni in sordina, di vite parzialmente vissute.

Friday, January 30, 2015

Il mattino ha l'oro in bocca

Questo racconto l'ho scritto ormai da un po'. Non mi fa impazzire l'indignazione politica, ed a rileggerlo lo trovo un po' ingenuo. Però ha delle immagini che mi piacciono molto, come il paragone dei banchi del parlamento visti dall'alto ai labirinti per ratti degli esperimenti psicologici.
Scriverlo mi ha dato tanta soddisfazione, non avevo mai provato a comporre testi violenti.


Anche oggi Franco, da bravo cittadino, si è svegliato alle 7:00. Senza far troppo rumore per evitare di svegliare la moglie, ha fatto la doccia e si è vestito.
Presa la sua 24 ore, inseguì la scia di lievito sfornato fino al Bar all'angolo, quello che fa i cornetti più buoni del quartiere. Sullo schermo appeso in alto sopra il bancone, un mezzobusto incravattato spiegava i giusti motivi che alcuni politici avanzavano per aver intascato dei finanziamenti pubblici. La notizia successiva riguardava la storia di un deputato razzista e della sua arroganza che era giustificata da motivi politici, non assolutamente per odio xenofobo come parte dell’opinione pubblica avrebbe potuto ritenere. Poi ancora un sindaco corrotto dava il consenso per dei lavori in appalto che di punto in bianco si interruppero dopo le elezioni vinte ed infine un'indagine di magistrati probabilmente comunisti che cercava di chiarire i traffici loschi tra alcuni noti esponenti della malavita e vari colletti bianchi della penisola.
Franco continuava a masticare il suo cornetto serrando le mandibole con sempre più forza, diventando sempre più nervoso. Nella sua mente le parole dello speaker sorridente rimbalzavano come la pallina di Pong, ora colpivano una tempia, ora quella opposta.
Era stanco, stanco di questa impunità, stanco di questa arroganza, stanco di questo buonismo televisivo che cercava di far ingoiare a tutti dei grandi bocconi sempre più amari, sempre più indigesti.
Qualcosa successe, Franco si girò e tornò a casa.
La moglie nel dormiveglia sussurrò "Franco, sei in ritardo, svegliati".
La guardò, la accarezzò, le diede un bacio.
Nello sgabuzzino la doppietta era ancora appesa. Lo rimandava ai tempi della gioventù, quando andava con gli amici al bosco, sveglia alle 6, a cercare qualche beccaccia o pernice. Raramente riuscivano a colpirne una, ma la sosta alla taverna sulla strada era d'obbligo, e spesso tutto si risolveva in un'ubriacata tra amici e in canti goliardici.
Nella sporta c'erano due scatole di munizioni, pallini a rosa, 120 per scatola.
Franco svuotò la 24 ore dai documenti, smontò le canne e dispose i pezzi al suo interno, svuotò le scatole nella valigetta, indossò il suo impermeabile e si incamminò verso l’uscio.
La moglie in dormiveglia ripeté: “Amore alzati sei in ritardo”.
Franco sorrise: era sempre stata talmente ansiosa da arrivare a comandarlo durante il sonno. Le carezzò di nuovo la nuca e a bassa voce le disse “Amore non preoccuparti sono pronto.”.
Lei non rispose, si girò sull’altro fiancò e continuò il sonno.
Il cammino verso la Camera dei Deputati non fu ansioso o lungo, ma naturale. Franco si fece la strada a piedi, canticchiando. Nel frattempo cercava di capire quanti poteva prenderne al massimo prima di essere a sua volta colpito dalle guardie. Pensava che 240 munizioni erano pochine per 630 bersagli, e forse avrebbe dovuto attendere l’apertura di un’armeria.
Davanti all’ingresso il carabiniere di guardia lo fermò.
“Signor franco, si fatica pure oggi?” Franco era sistemista, lavorava spesso alla Camera, lo chiamavano per sistemare problemi informatici di quelle vetuste macchine con sistemi operativi obsoleti. Giustamente nel posto dove si manovrava una nazione conservatrice in costante ritardo sulle novità politiche, i sistemi informatici non possono che rispecchiare la situazione.
“Devo controllare il cervellone, pare che abbia problemi e mandi in tilt il pannello luminoso delle votazioni.”
“Perfetto, attenda un attimo che devo chiamare il direttore della sala computer.”
Franco sapeva bene che il direttore non si sarebbe presentato prima delle 9.30, a quell’ora nessuno lavorava alla Camera.
“Guardi al momento non mi risponde nessuno. Mi lasci il documento che le faccio il pass, non la faccio accompagnare che siamo a corto di personale, la strada la conosce tanto no?
Giusto un secondo la perquisizione d’obbligo, allarghi le braccia... Ok è pulito. Dovrei farle passare la valigetta nel metal detector, ma abbiamo dei problemi con la macchina da un po’ di giorni, ma lei è sempre qui, diciamo che l’ho controllata, se qualcuno le trova un mitra nella valigetta, non dica che l'ho fatta passare io.”
"Ah ah, ma si figuri, queste cose non vanno dette neanche per scherzo!" rispose Franco.
Da una parte questa nazione piena di disservizi e malfunzionamenti stava tornandogli utile: non aveva pensato in minima parte a come superare il primo controllo.
Camminò verso la sala del “cervellone”, un sistema antico capace di gestire le poche automazioni elettroniche della sala: serrature automatiche, luci e le lampadine verdi e rosse del tabellone luminoso per le votazioni elettroniche. Dalla sala, posta dietro il tabellone, una vetrata gli consentiva di osservare tutta la Camera. Franco nascose la valigetta nell’armadietto ed iniziò ad armeggiare col computer. Doveva aspettare almeno un’oretta prima di iniziare a vedere qualcuno, ed almeno un paio se voleva la camera dei deputati piena.
Il tempo passò, tra una partita a campo minato ed una a solitario. Il direttore si affacciò un paio di volte, constatò che era tutto regolare, e tornò a dormire nel suo ufficio.
Dal finestrone si vedeva tutto, la sala era semivuota, ma era una consuetudine abbastanza frequente, quindi Franco si considerò soddisfatto e si preparò all'azione. Aprì la valigetta e ricostruì l’arma, la caricò, svuotò le scatole di proiettili nelle tasche dell’impermeabile e lo indossò.
All’uscita dalla sala computer incrociò un suo collega: “Franco che ci fai qui?”
“Vattene ora finché sei in tempo.” gli rispose.
Il collega lo guardò negli occhi confuso, non rispose, e continuò a camminare.
Il corridoio era pieno arazzi pregiati e di lampadari barocchi, i marmi policromi brillavano e riflettevano quasi come uno specchio. Franco si diresse verso la Camera. Nella stanza antistante una guardia armata gli chiese cosa volesse fare.
Franco gli mostrò il cartellino e disse “Devo provare qualche pulsantiera per vedere se il tabellone elettronico funziona ancora”.
La guardia, stanca e disinteressata lo lasciò entrare, non si chiese nemmeno il perché di un impermeabile all'interno di un luogo chiuso.
La Camera era un’enorme sala sfarzosa e amplia, piena di esseri umani che si adoperavano a sembrare impegnati. Chi dormiva, chi leggeva giornali, chi giocava a briscola sull’iPad.
La luce dall’imponente lampadario di cristallo teneva la sala illuminata a giorno, i climatizzatori contribuivano a mantenere il clima gradevole e tutti quanti sembravano allegri ed incuranti.
Nessuno si accorse di quell’ometto che si chiudeva la porta dietro le spalle.
Nessuno si accorse delle serrature automatiche che si attivavano: il cervellone era stato programmato per chiudere a chiave tutte le porte dopo 5 minuti, e tanto era bastato a Franco per raggiungere la sala. Udì il click, e prese un respiro profondo.
Improvvisamente il tabellone elettronico si trasformò riga per riga.
Piano piano le luci verdi su sfondo rosso composero la frase “IL CONTO”.
I deputati guardarono in alto incuriositi ed iniziarono a ridere di gusto, per poi tornare a non fare nulla ai loro banchi.
Franco con molta calma scese dalla cavea verso il centro della sala, sotto gli occhi dei politici incuriositi.
Arrivato al centro, ormai tutt’altro che ignorato, guardò verso l’alto, e sorrise. Avrebbe dovuto dire qualche frase ad effetto queste cose funzionano sempre nei film americani, ma era un uomo semplice, non voleva apparire ingenuo ai posteri dicendo una frase scontata tipo “questo è quello che meritate!”, lui lo faceva per sé stesso, non per qualche tipo di vendetta sociale. Si era semplicemente annoiato di essere preso per il culo costantemente a reti unificate da altri esseri umani identici a lui che parlavano di “bene del paese” mentre innestavano il germe dell’interesse economico sotto ogni aspetto della vita.
Sfoderò la doppietta e sparò i due colpi. Uno a destra ed uno a sinistra. 3 deputati caddero al suolo, un boato si levò dalla sala ed il panico iniziò a serpeggiare. Deputati di destra e di sinistra si scavalcavano l’un l’altro per cercare la via d’uscita. Le donne venivano lasciate indietro, spinte e strattonate. Alcune ruzzolarono per le scale spezzando i tacchi delle loro costosissime scarpe griffate.
I più vigliacchi le usavano come scudo, il presidente della camera si nascose sotto la cattedra.
Franco con molta calma caricò altri due colpi e si diresse verso la porta sigillata elettronicamente.
Là erano ammassati come topi in una nave che affonda, rannicchiati con la testa fra le mani. Alcuni avevano i pantaloni bagnati, altri piagnucolavano, i più coraggiosi proponevano immunità e soldi in caso fossero lasciati vivi. Franco mirò nel mucchio di carne umana e sparò i due colpi da una distanza ottimale, la rosa li falciò tutti.
Una seconda ondata di urla di terrore rimbombò per la camera. I deputati feriti strisciavano o si coprivano sotto i cadaveri di quelli morti.
Dalla porta si udiva il rumore dei colpi dei poliziotti che tentavano di sfondare, ma Franco non se ne curò. Caricò ancora ed iniziò a camminare tranquillamente. Come quando andava alla ricerca di lepri, “ma le lepri non sono così stupide da correre in linea retta” pensò.
Ne colpì due nascosti sotto le poltrone, poi ancora tre che correvano in fila indiana.
Scese verso le donne che erano state lasciate a terra durante la prima fuga, caricando il fucile.
Alcune si erano fatte male cadendo dalle scale, strattonate da uomini di sani principi liberali.
Franco si avvicinò le guardò sorridendo. Morirono con molta più dignità dei colleghi uomini.
Altre due cariche, e stavolta si decise a sparare sulla cattedra dove supponeva fosse nascosto il Presidente.
Un urlo si udì, la voce era inconfondibile. Per sicurezza sparò un secondo colpo, ma stavolta nessuna voce arrivò dal legno.
La porta cedette. Da dietro si udivano le voci dei carabinieri che cercavano di farla aprire, ma i cadaveri ammassati lo impedivano.
“Ho ancora qualche minuto” pensò. Ricaricò l’arma e scavalcò fino alla poltrona del presidente. Da lì era possibile scrutare tutta la situazione. A terra il corpo ben vestito del presidente non si muoveva. E per una volta il viso esprimeva dei sentimenti sinceri.
Dall’alto pensò di stare osservando uno di quei labirinti per ratti. Tanti ratti in giacca e cravatta strisciavano tra i banchi, alcuni ratti più corpulenti tentavano di nascondersi dietro pannelli di legno, sudati, impauriti, altri magri si muovevano continuamente alla ricerca di una via di uscita. “Per una volta siete voi a provare tensione, per una volta sono io a mantenere la calma mentre tutti voi state nella merda, per una volta tocca a voi sperare di farcela ed arrivare a fine giornata”. Franco mirò verso un punto di aggregazione, un’altra porta bloccata. Un deputato si levò urlando “Stronzi, così ci farete ammazzare tutti!”
“È troppo tardi per diventare previdenti.” sussurrò fra sé e sé. Il grilletto indietreggiò, il cane scattò. Due volte.
Prese una manciata di proiettili, ora sembravano decisamente troppi per essere utilizzati tutti, e li lanciò come riso ad un matrimonio. I deputati che ne vennero colpiti frignarono qualche lamento, si rotolarono a terra, credendo di essere stati feriti, toccandosi le parti colpite impauriti.
Finalmente con una spinta decisa, gli agenti entrarono in sala, le porte spazzarono i cadaveri verso l’esterno, gli agenti in giubbotto antiproiettile si disposero a semicerchio e puntarono le armi verso Franco.
“Fermo!” gridò uno di loro.
“Vediamo quanto sono pronti i loro riflessi” pensò.
Prese la doppietta scarica e la puntò contro di loro.
La crivella di colpi arrivò immediata ma fù indolore. Tutto divenne buio.
Una voce familiare sussurrò “Franco, è ora cazzo!”
Un display rosso segnava le 7:35.
Due occhi castani lo fissavano innervositi: “Questa è l’ultima volta che vai a caccia la domenica. Torni sempre tardi e ti ubriachi come un alcolista! Non hai più vent’anni! Corri o ti licenziano, oggi devi andare alla Camera! E’ mezz’ora che ti chiamo!”
Franco aprì gli occhi guardo sua moglie e le disse “Sai cara, ho fatto un sogno molto bello.”
“Ah, davvero? E io c’ero?”
“Si, amore, c’eri anche te.”

Franco si alzò, indossò l'abito e si diresse verso lo studio. La doppietta era coricata sulla scrivania, ancora sporca dalla battuta della sera precedente. Franco la guardò sorridente, ed iniziò a svuotare la ventiquattr'ore.

Saturday, October 11, 2014

Temino


TEMINO:
Parla di cosa vuoi fare da grande. Giustifica le tue risposte. Utilizza il tempo futuro ed il condizionale.

SVOLGIMENTO:
Da grande io vorrò fare il bene della gente. Vorrei diventare il Sovrano del mio Regno. Mi piacerebbe essere ben voluto dai miei cittadini, aiutarli nelle piccole cose. Troppo spesso sento i miei genitori lamentarsi dei problemi, dei soldi che mancano, ecco, io non farò mai parlare male di me.
Se dovessi diventare il capo, combatterei le ingiustizie. Aiuterei le popolazioni vicine, facendole entrare nel mio regno. Il simbolo del mio gruppo sarà il sole, perché è un astro che ci dà la vita, anche se noi uomini non ce ne accorgiamo.

Le strade saranno piene di simboli del sole, per ricordare a tutti che il sole sorge sempre, anche nel cattivo tempo. Quando i miei cittadini mi vedranno vicino al sole saluteranno fieri, contenti.
Quando sarò grande mi vestirò in modo buffo, così che tutti guardandomi penseranno: “che persona allegra quel Sovrano là!”.
Nel mio Paese non esisteranno sfruttatori, tutti quelli che vorranno fare del male ai miei cittadini verranno cacciati via, oppure messi ai lavori forzati. Le ricchezze fatte sfruttando i miei cittadini saranno sequestrate e rese al mio popolo, perché io sarò un Sovrano giusto. Sarò anche capace di andare in guerra pur di aiutare il mio popolo, e non mi darò mai per vinto a costo della vita.
Lo so che io sono solo un bambino con delle belle idee, e lo so che quelli che comandano non mi faranno mai essere il capo, per questo credo che dovrei prima trovare i miei alleati da tutte le parti per fare un’unica coalizione di gente che ama il proprio Regno ed il proprio popolo.
Come tutti i Sovrani, ci saranno persone che non mi capiranno e penseranno male di me. Ma io li inviterò a far parte del mio regno, e farò capire loro che il mio sarà un regno felice per i giusti e violento con gli ingiusti.
Questo è quello che vorrò fare da grande.

Adolf H., Fischlham 1899

Thursday, October 2, 2014

Il vuoto che avanza/ Fusa

Scopro oggi di aver aperto in passato un blog dal nome "ilvuotocheavanza" e non averlo mai utilizzato.
La cosa non mi spiace, inoltre dovrei lavorare, ed avevo proprio terminato le distrazioni.
Mi chiamo Giuseppe Tomasi. Ho un quasi omonimo autore di un bel romanzo chiamato "Il Gattopardo".

Mi piacerebbe un giorno scrivere una raccolta di racconti brevi: ho sempre adorato i racconti brevi, la loro immediatezza, la necessità di avere una prosa asciutta e priva di fronzoli per poter ottenere la "sorpresa" finale (che non è per forza un colpo di scena che va tanto di moda nella narrativa contemporanea) entro poche righe o poche pagine.
Gli autori di racconti brevi che preferisco sono Lovecraft, Poe, King, Kafka e Pirandello. Ognuno di loro ha saputo dare al genere un'innovazione particolare: le storie di Kafka così paradossali e spesso senza apparente conclusione; il romanzo gotico di Poe con i suoi cliché e quello di Loveraft barocco e fuori dal tempo; Pirandello con le sue prose crude e le sue descrizioni di una natura violenta che si abbatte senza pietà alcuna sui deboli come sui potenti; infine le storie di King, il più classico dell'elenco, ma piene di cultura Americana e richiami ai narratori classici del suo Paese. Hanno tutti mosso in me qualcosa, mi hanno fatto riflettere, tremare e sorridere.
Ho sicuramente lasciato fuori molti altri autori che adoro (al volo ricordo Bukowski, Pancake, Benni, Asimov), ma sono sicuro che le loro raccolte hanno avuto un ascendente sulla maniera che ho acquisito di raccontare storie.
Spero di mandare avanti questo progetto, anche se sporadicamente, e di non abbandonarlo come le migliaia di iniziative pensate, iniziate e poi dimenticate in qualche limbo, perché una delle mie specialità è proprio quella di iniziare qualcosa e non portarla a termine.
Come primo racconto ho il piacere di condividere un esperimento molto breve, a dire il vero pensato per essere condiviso su facebook. L'ho elaborato di notte, mentre perdevo tempo davanti al PC (perdo molto tempo io) e il mio gatto dormiva ai miei piedi. Non è particolarmente innovativo, ha lo schema classico dei racconti horror che i giovani escursionisti si tramandano intorno al fuoco con una torcia puntata al mento, ma spero che la scelta del soggetto sia di vostro gradimento.
Buona lettura.


Giuseppe Tomasi

Fusa

Mi sveglio nel cuore della notte con una sensazione di ansia. Il gatto dorme ai piedi del letto, non lo vedo con questo buio, ma sento il suo respiro tranquillo, il suo calore, il suo peso. Le coperte sono intrecciate, devo aver fatto brutti sogni. Accarezzo il gatto, che mi lecca la mano, mi sbava con la sua saliva densa, mi fa le fusa, delle fusa lunghe, lente, rilassanti.
Non riesco più a riprendere sonno. Mi alzo e vado in cucina, ripetendo movimenti che ormai conosco a memoria.
Prendo il bicchiere ed apro il frigo per versarmi dell'acqua fresca. La luce illumina la sedia. Il gatto è là, addormentato come l'avevo lasciato la sera.
Dalla mia camera si ode un ringhio profondo, demoniaco. Due occhi gialli percorrono il corridoio come un lampo.
Cade il bicchiere, si frantuma in mille pezzi, il gatto scappa sotto il tavolo mentre il mio sangue carminio scorre sulle maioliche bianche.